Derecho y Cambio Social

 
 

 

VITA, NUDA VITA E IL DIRITTO AL RIFIUTO DELLE CURE

Sabrina Peron*


 

 

Il diritto del singolo alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela anche del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo i propri canoni di dignità e finanche di lasciarsi morire.

 

1.- Premessa; 2.- La giurisprudenza e il rifiuto al trattamento; 3.- La manifestazione del rifiuto

 

1) Premessa

Nel corso di questi ultimi anni il nostro Paese è attraversato da un sofferto ed acceso dibattito sulle nuove (ed incerte) frontiere del diritto di fronte a casi dolorosi come quello di Eluana Englaro o di Piergiorgio Welby. Il drammatici problemi morali e giuridici che pongono questi casi derivano dalle difficoltà che oggi si registrano di fronte al continuo progresso dell’innovazione scientifica e tecnologica che «fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere e di morire»[1].

In particolare, l’avanzare delle nuove tecnologie fa sì che la natura - con le sue leggi, prima ineluttabilmente sottratte alla volontà umana - a questa, oggi, risulti in parte assoggettata. Infatti, nella nostra età contemporanea, il «corpo umano appare sempre più sfidato, e anche letteralmente attraversato, dalla tecnica», non solo sino al punto in cui «non esiste una vita naturale che non sia, contemporaneamente, anche tecnica»[2], ma in cui si viene affacciando una nuova nozione di “normalità”, che non è più soltanto quella “naturalmente” determinata, ma pure quella “artificialmente costruita” [3].

È dunque necessaria una nuova riflessione di fronte ad una tecno-scienza che ha rovesciato paradigmi noti ed inciso sulla stessa antropologia, quale si era venuta costruendo nella storia dell’umanità[4].

In particolare – se, sino a circa alla metà del secolo scorso, il rapporto tra vita e morte si è sempre posto in termini di secca alternativa e di pura esclusione (e si poteva  ancora convenire con Epicuro che la «morte nulla è per noi, perché quando noi siamo, la morte  non è presente, e quando è presente la morte, allora noi non siamo»[5]) - oggi invece la moderna tecno-scienza è in grado di compiere intromissioni volte a «far vivere», intervenendo sul modo di vivere e sul «come della vita»[6], potendo finanche giungere a procastinare la fine oltre il punto in cui la vita ha ancora valore per il paziente[7] (come è accaduto nel caso di Piergiorgio Welby) e, anzi, anche oltre il punto in cui questi è ancora in grado di darle un valore[8] (come sta accadendo nel caso di Eluana Englaro).

 

2) La giurisprudenza e il rifiuto al trattamento

Al riguardo, per una migliore comprensione occorre soffermarsi brevemente sui due casi sopra citati.

 Nel c.d. “caso Welby”, il paziente - affetto da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, che gli impediva ogni movimento, lasciandogli però intatta la capacità intellettiva - aveva richiesto di essere lasciato morire (il che comportava l’interruzione della ventilazione artificiale che lo teneva in vita e la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, così come richiesto dal paziente stesso). Il ricorso d’urgenza dallo proposto al Tribunale di Roma veniva però dichiarato inammissibile sul presupposto che -  se pur è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi — tale diritto non sarebbe in «concreto tutelabile, a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico»[9]. In questi casi - ad avviso del giudicante - l’attuazione pratica del «diritto del paziente ad “esigere” ed a “pretendere” che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita» lascerebbe il «posto all’interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di concetti sì di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti “la dignità della persona”), ma che sono indeterminati e appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall’intervento del giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all’analogia o ai principî generali dell’ordinamento»[10]. Proprio con riferimento all’epilogo di questo caso, lo stesso Tribunale di Roma[11] ha successivamente sottoposto la citata decisione a severa critica, sul presupposto che, quando si riconosce l’esistenza di un «diritto di rango costituzionale, quale quello “all’autodeterminazione individuale e consapevole” in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali gli art. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, e 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580 c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio, nonché quali gli art. 35 e 37 del codice di deontologia medica»[12]. Con quest’ultima decisione, il c.d. “caso Welby” giungeva alla sua conclusione giudiziaria: il Tribunale assolveva dal reato di “omicidio del consenziente” (art. 579 c.p.), il medico anestesista che aveva interrotto la terapia; e ciò sulla scorta del seguente principio: «il medico che, su espressa richiesta del paziente, ne cagiona la morte, interrompendo il trattamento sanitario “salvavita” cui lo stesso era sottoposto, non risponde del reato di omicidio del consenziente, operando l’esimente dell’adempimento del dovere, sempre che il dissenso alla prosecuzione del trattamento sia stato espresso liberamente e personalmente da paziente capace, compiutamente informato circa le conseguenze della sua richiesta».

Il c.d. “caso Englaro”, riguarda invece, una giovane donna che, a seguito di un incidente stradale, entrava in uno stato di coma profondo. Da tale stato la giovane paziente usciva dopo qualche mese, quando ricominciava a respirare spontaneamente ed ad aprire gli occhi, senza però riprendere alcun contatto con l’ambiente e senza presentare alcun movimento spontaneo degli arti. Il nuovo quadro clinico si configurava, così, come uno stato vegetativo persistente. Tale stato mantenendosi inalterato per 16 anni, si configura oggi  come quello che la scienza medica definisce “stato vegetativo permanente”[13]. Il padre della vittima - nel frattempo nominato tutore, nel 1999 iniziava una battaglia giudiziaria affinché - accertata l’inguaribilità ed l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente[14] e l’inconciliabilità di tale stato e del trattamento di sostegno forzato con le precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità della persona espresse dalla vittima - venisse autorizzata l’interruzione della terapia di sostegno vitale.

Approdato il caso avanti alla Corte di Cassazione - dopo tre procedimenti di merito e previa nomina di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 c.p.c. - quest’ultima disponeva il rinvio della causa ad altra sezione della medesima Corte d’Appello, affinché si uniformasse al seguente principio di diritto: «ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino naso-gastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona». Con la precisazione che «ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa»[15].

La Corte d’Appello di Milano investita della questione[16], ritenuta la sussistenza di entrambe le condizioni indicate dalla Cassazione, autorizzava l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale attuato attraverso alimentazione e idratazione tramite sondino naso-grastrico[17].

3) La manifestazione del rifiuto

Come evidenziato dalle due fattispecie sopra drescritte, può dunque accadere che le possibilità espansive della vita si riducano, si contraggano e si ripieghino sino ad arrivare alla soglia dell’estremo limite della vita in cui le capacità vitali, che garantiscono il funzionamento dell’organismo, non solo sono possibili unicamente grazie all’ininterrotto impiego di cure e tecnologie mediche, ma ciò può accadere anche quando l’individuo ha irreversibilmente perduto la propria coscienza.

In questi casi – sicuramente estremi, ma non improbabili - si realizza una completa e “perfetta” dissociazione tra mente e corpo, in forza della quale l’individuo si situa “al di là” ed “al di fuori” dell’identità con se stesso, in una zona grigia in cui – da un lato - è irreversibilmente scissa l’identità tra l’io ed il corpo; mentre - dall’altro lato ed al contempo - l’individuo è indissolubilmente incatenato al proprio corpo, sino a divenire il punto di coincidenza assoluta del corpo con se stesso[18]. Il corpo dunque non è più soltanto il medium felice o infelice che ci mette in rapporto con il mondo implacabile della Hyle, della materia, ma diventa un’aderenza alla quale non si sfugge[19]. In altre parole, si compie una continua sottrazione di vita alla vita, sino a giungere ad una soglia estrema tra la vita e la morte in cui la vita si converte in “nuda vita”: l’individuo è privato di tutti i diritti e le aspettative che si è soliti attribuire all’esistenza umana (che si trova così privata di ogni appartenenza culturale e di ogni divenire storico), eppure è ancora biologiamente vivo, ossia è ridotto a un mero fascio di funzioni biologiche.

Le macchine dunque - funzionando al posto dell’uomo (e, finanche, contro la sua volontà, o in assenza di una sua volontà) - determinano una situazione di reificazione dell’uomo, che ne ridefinisce i termini non più in senso umanistico o antropologico, ma in senso antropotecnico e biotecnologico.[20]

In questo modo l’uomo viene spinto in una zona grigia di indeterminazione, che si potrebbe chiamare come il mondo del “non”: non più vivo e non ancora morto; interdetto alla vita e respinto dalla morte in un abisso che non può rinchiudersi.

Pur in questo nuovo contesto, al diritto spetta il compito di «garantire la più ampia e paritaria possibilità di accesso alle opportunità crescenti offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Due grandi principi s’incontrano e si intrecciano. Quello di dignità, che si manifesta come il criterio di valutazione delle modalità e degli esiti della costruzione artificiale del corpo. E quello dell’eguaglianza che, una volta riconosciuta la legittimità della specifica costruzione artificiale, deve evitare che da ciò possano nascere discriminazioni, sia nella fase dell'accesso, sia in quella successiva della vita della persona che ha utilizzato gli impianti tecnologici»[21].

In questa situazione, in cui la tecno-scienza ha dispiegato tutta la sua impotenza, non avendo la capacità di restituire il paziente alla vita, ma non potendo neppure consegnarlo definitivamente alla morte (alla quale forse già appartiene), il principio che si vuole tutelare è che, non solo la «prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli», ma che ciò non possa essere imposto neppure nel caso in cui «il malato versi in stato di assoluta incapacità», e non possa dunque esprimere alcunchè[22].

Difatti, il «principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé», non solo vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente; ma altresì: a) concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo, e non viceversa; b) guarda al limite del «rispetto della persona umana», in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive[23].

La giurisprudenza da ultimo formatasi sembrerebbe quindi respingere ogni «contraria concezione che considera il diritto alla salute o alla vita, in certo senso, come un’entità esterna all’uomo, che possa imporsi, in questa sua oggettivata, ipostatizzata autonomia, anche contro e a dispetto della volontà dell’uomo»[24].

Per tale ragioni, è stato escluso che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Ovviamente, è necessario che il rifiuto del paziente alle cure si concreti in una ««manifestazione espressa, in equivoca, attuale e informata»: egli – difatti – deve  «esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata, una cognizione dei fatti non soltanto ideologica, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria»[25].

Allorché il rifiuto alle cure abbia tali connotati, non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. E non potrebbe essere diversamente visto che lo stesso art. 32 Cost. prevede l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari «nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto»[26].

Dunque, soltanto nell’ambito di questi confini è «costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire»[27]. Difatti, nessuno ha il diritto – e men che mai il dovere – di imporre ad un altro soggetto una terapia medica, negandogli così continuamente il diritto all’autodeterminazione, il diritto al poter-essere-se-stesso[28].

Ovviamente (e coerentemente) questo non può accadere neppure nell’ipotesi in cui il malato versi in stato di assoluta incapacità. In questo caso, tale «diritto non può che – necessariamente – esprimersi attraverso la mediazione di “qualcun altro”, nella specie non irragionevolmente individuato in un legale rappresentante (peraltro “istituzionale”), ossia il tutore o l’amministratore di sostegno, giacché, se non vi fosse nessun “mediatore” abilitato ad esprimere la “voce” del malato-incapace, non potrebbe neppure attuarsi, per definizione, quel diritto “personalissimo” all’autodeterminazione terapeutica che pure non può non essergli riconosciuto»[29].

Tale posizione non avvalla l’esistenza di un diritto assoluto di morire[30], ma si limita  a riconoscere l’esistenza di un diritto, di matrice costituzionale, nel lasciare che la vita segua il suo corso naturale sino alla morte senza interventi artificiali esterni[31], quando essi siano più dannosi che utili per il malato o non proporzionati né da lui totterabili, senza però confondere tale diritto con quello, invece non riconosciuto nel nostro ordinamento, di eutanasia[32] - inteso quale comportamento volto ad abbreviare la vita - causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.

 


 

 

NOTAS:

[1] S. RODOTA’, Se la legge regola la vita e la morte, in La Repubblica, 18.09.2008.

[2] R. ESPOSITO, Bios, Einaudi, 2004, p. 5, che propone di distinguere come nel lessico greco - ed in particolare aristotelico - il termine bios inteso nel suo «significato di vita qualificata o di forma di vita», dal termine zoé, «vale a dire alla vita nella sua semplice tenuta biologica».

[3] Scrive sempre Rodotà: «di questo ci ha parlato la vicenda di Piergiorgio Welby e ci parla oggi quella di Eluana Englaro. Di questo ci parlano i tre milioni di bambini nati con le tecniche di procreazione assistita. Di questo ci parla Oscar Pistorius che, privo della parte inferiore delle gambe, le sostituisce con protesi in fibra di carbonio e non solo corre e vince nelle paraolimpiadi, ma si vede riconosciuto anche il diritto a partecipare alle olimpiadi vere e proprie, fa cadere la barriera tra "normodotati" e portatori di protesi e impone così una nuova nozione di normalità» (S. RODOTA’, Se la legge regola la vita e la morte, cit.); nonché sempre Rodotà, Il diritto e la dignità, La Repubblica, 01.10.2008, citando la dichiarazione dell’atleta  paraolimpica, Aimée Mullins, laddove ha affermato che «modificare il proprio corpo con la tecnologia non è un vantaggio, ma un diritto. Sia per chi fa sport a livello professionistico che per l' uomo comune».

[4] Cfr. S. RODOTA’, Se la legge regola la vita e la morte, cit.; nonché M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Feltrinelli, 1996, p. 127: «per millenni l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente e inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente».

[5] EPICURO, Lettera a Meneceo, in DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Laterza, 2002, vol. II, p. 441. Si veda anche Seneca in Le Troiane : mortem nihil est ipsaque mors nihil (SENECA, Tutte le tragedie, Newton & Compton Editori, 2004, p. 122)

[6] Cfr. M. FOUCAULT, Bio-potere e totalitarismo, in AA.VV., La filosofia di fronte all’estremo (a cura di S. Forti), Einaudi, 2004, p. 87. Si

[7] Cfr. H. JONAS, Il diritto di morire, Il Melagono,  1985, p. 11.

[8] Cfr. H. JONAS, Il diritto di morire, cit., p. 11.

[9] Trib. Roma, ord., 16.12.2006, in Foro it., 2007, I, c. 571, con nota critica di D. MALTESE, Diritto al rifiuto delle cure, accanimento terapeutico e provvedimenti del giudice. Conforme a questa decisione anche: Proc. Rep. Trib. Pen. Sassari, 13.02.2007: «sebbene l’ordinamento giuridico italiano riconosca il diritto del paziente affetto da una grave patologia invalidante di rifiutare le cure ventilatorie, manca una normativa che consenta di rendere effettiva la tutela di tale prerogativa; va rigettata, pertanto, la richiesta inoltrata alla procura della repubblica, di emissione di un provvedimento di nomina di un commissario ad acta che, sostituendosi al personale del reparto ospedaliero in cui il malato è ricoverato, sedi il paziente e interrompa la ventilazione», in DVD Foro it.

[10] Trib. Roma, ord., 16.12.2006, cit., secondo il Tribunale si tratterebbe di principî «incerti ed evanescenti» e per i quali inoltre, mancherebbe una «definizione condivisa ed accettata dei concetti di “futilità” del trattamento, di quando l’insistere con trattamenti di sostegno vitale sia ingiustificato o sproporzionato, sugli stessi concetti di insostenibilità della qualità della vita o di degradazione della persona da soggetto ad oggetto e perché non esistono linee-guida di natura tecnica ed empirica di orientamento dei comportamenti dei medici che, in definitiva, riempiano di contenuti il “divieto di accanimento terapeutico” ed il correlativo diritto a far cessare l’accanimento stesso con la richiesta di interruzione della terapia di sostentamento vitale». In altri termini, ad avviso del Tribunale, in «assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato “accanimento terapeutico”, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito e, di conseguenza, ciò comporta l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito. Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare l’accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine ed alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni (allo stesso modo in cui intervenne il legislatore per definire la “morte cerebrale” nel 1993)».

[11] Trib. Roma, 23.07.2007, in Foro it., 2008,  II, c. 105.

[12] Trib. Roma, 23.07.2007, cit., difatti, accogliendo una siffatta conclusione, si incorrerebbe nel rischio di una «palese violazione dei principî che presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti, in quanto non è consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla scorta dell’esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore, perché delle due è l’una: o si privilegia l’interpretazione che faccia salvo il principio costituzionale con immediata applicazione di quest’ultimo, disattendendo l’interpretazione contraria della norma oppure, in caso di insuperabile conflitto, si deve sollevare questione di legittimità costituzionale, ma certamente non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senza tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende».

[13] Tale stato nel caso concreto della giovane paziente viene così descritto dal prof. Carlo Alberto Defanti, che da anni la segue come medico: al momento della mia prima osservazione, la paziente «appariva in buone condizioni generali: manteneva gli occhi aperti durante buona parte della giornata, i globi oculari presentavano una cosiddetta “deviazione sghemba” e la pupilla dell’occhio destro non reagiva alla luce. Il viso e la mandibola erano animati da una sorta di tremore ritmico, gli arti immobili e spastici. Respirava spontaneamente senza ausili meccanici; la nutrizione era assicurata mediante un sondino inserito nello stomaco attraverso il naso e la minzione attraverso un catetere vescicale. Malgrado l’osservazione prolungata e stimolazioni di vario tipo, non si riuscì mai ad entrare in contatto con lei.  Fra le indagini condotte durante la degenza, l’elettroencefalogramma prolungato per 20 ore confermò che vi era un’alternanza di fasi di sonno e di veglia. L’attività elettrica cerebrale registrata alla superficie del cranio si dimostrò poco organizzata e non reagente ai diversi stimoli sensoriali. La Risonanza Magnetica dell’encefalo mise in evidenza una diffusa alterazione della sostanza bianca dei due emisferi e un danno marcato del tronco cerebrale. Confermai la diagnosi dello stato vegetativo e la mia prognosi negativa quando al recupero della coscienza; parlai perciò di uno stato vegetativo permanente o, in altre parole, di uno stato vegetativo irreversibile. Purtroppo la previsione, del resto fin troppo facile, si è avverata», così C.A. Defanti, Terri Schiavo, Eluana Englaro e l’impasse della bioetica italiana, in www.limen.biz

[14] Ha osservato, M. BARNI, Stato vegetativo persistente: l'ineludibile protagonismo del medico, in Riv. it. medicina legale, 2001, 3, 628, che la «prolungata sopravvivenza di questi pazienti e la incertezza prognostica hanno sollevato notevoli problemi di natura etica, scientifica e giuridica; intorno ai quali due opposte tendenze sono emerse: quella della terapia ad oltranza, nella speranza di un recupero, anche tardivo, delle funzioni cerebrali, e quella di coloro che, ritenendo tale recupero improbabile se non certamente impossibile dopo un certo intervallo di tempo, considerano lecito sospendere le terapie atte a mantenere il paziente in vita, valutate come espressione di accanimento terapeutico. Il problema etico si incentra dunque sull'interrogativo se e quando sospendere il sostegno vitale a cominciare dalla alimentazione-idratazione».

Difatti, le difficoltà «sorgono, non tanto nel riconoscere uno stato vegetativo, ma nella pronuncia «sulla irreversibilità (permanenza), cioè di formulare una previsione per il futuro (un prognosi in termini medici», tant’è che «parlare di SVP è formulare al contempo una diagnosi ed un prognosi», Per tale motivo, la diagnosi di uno stato di SVP viene formulata solo dopo un periodo di attenta e lunga osservazione del malato, tesa a cogliere «indizi di ripresa di contatto con l’ambiente, indizi che possono inizialmente essere tenui e incostanti». Osservazione che va «da un minimo di tre mesi - per le ecefalopatie anossiche – ad un massimo di dodici per quelle traumatiche», così, BONITO – PRIMAVERA – BORGHI – MORI – DEFANTI, La sospensione delle misure di sostegno vitale nello stato vegetativo permanente, in www.limen.biz, p. 1.

Con riferimento alla nozione di stato vegetativo si definisce tale un quadro clinico caratterizzato da: «a) nessuna consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante; b) incapacità di interagire con gli altri; c) nessuna evidenza di comportamenti sostenuti, riproducibili, finalizzati o volontari  in risposta a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorosi; d) nessun segno di comprensione o espressione verbale; e) stato di intermittente vigelanza compatibile con un ritmo sonno-veglia (con apertura degli occhi durante la veglia); f) conservazione sufficiente delle funzioni vegetative, tali da permettere la sopravvivenza con semplici cure mediche ed assistenza infermieristica; g) incontinenza urinaria e fecale; h) variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi cranici e di quelli spinali», La definizione è tratta da: Gli Stati Vegetativi – Riflessioni interno al tema delle cure palliative e delle malattie inguaribili non oncologiche (documento del Master Universitario “Cure palliative al termine di vita”, Milano, 2005, in www.fondazioneluvi.it, p. 7 e ss.), al quale si rinvia per maggiori approfondimenti. Tale documento distingue chiaramente lo stato vegetativo da «altri disturbi della coscienza tra cui il coma in senso stretto e la sindrome di locked in (…). In particolare, lo SV è una condizione diversa, sia sotto il piano clinico che giuridico dalle condizioni definite di morte cerebrale o coma irreversibile. In queste si identifica infatti la completa e irreversibile perdita di attività dell’encefalo, confermata dalle registrazioni elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate, fra cui l’attività respiratoria (…). Secondo la legislazione italiana, l’accertamento della morte cerebrale richiede la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, inclusa l’assenza dei riflessi del tronco, del respiro spontaneo e dell’attività elettrica cerebrale. La condizione deve essere verificata per almeno 6 ore nell’adulto, 12 ore per i bambini fra 1 e 5 anni e 24 ore al di sotto di questa età ed il suo accertamento è premessa indispensabile per avviare la proceduta di espianto di organi destinati al trapianto su vivente». Si vedano al riguardo: L. 02.12.1975 n. 644 (Disciplina dei prelievi di parte di cadavere a scopo di trapianto terapeutico); L. 29.12.1993, n. 578 (Accertamento e certificazione di morte), che all’art. 1 statuisce «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo»; nonché il Decreto del Ministero della Sanità, 22.08.1994, n. 582.

[15] Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, la sentenza è stata pubblicata in varie riviste quali: Foro it., 2007, I, 3025, con nota di G. CASABURI e sempre in Foro it., 2008, I, 125, con nota di D. MALTESE, Convincimenti già manifestati in passato dall’incapace in stato vegetativo irreversibile e poteri degli organi preposti alla sua assistenza; Corriere giur., 2007, 1676, con nota di  E. CALO’, La cassazione «vara» il testamento biologico.

[16] App. Milano (decreto), 25.06.2008, n. 88, in Guida dir., 2008. Peraltro tale decisione è stata impugnata dalla Procura della Repubblica, con le seguenti motivazioni: «è principio di diritto affermato in sede di legittimità che il giudicato interno si formi solo su capi autonomi della sentenza che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia tali da  integrare una decisione del tutto indipendente e che tale autonomia difetta non solo con riguardo alle mere argomentazioni, ma anche con riguardo  ai presupposti di fatto necessari che concorrono a formare un capo unico della decisione (…); la verifica dello stato vegetativo di Eluana  non può comunque  ritenersi preclusa sulla scorta del criterio della non contestazione delle circostanze di fatto vertendosi in materia relativa ad un diritto indisponibile (vita della persona umana) e come tale di necessaria valutazione d’ufficio attraverso strumenti processuali idonei ad assicurare l’assoluta terzietà ed autonomia di giudizio; (…) trattandosi di verifica concernente situazione (stato psico-fisico della persona) soggetta naturalmente a modificazioni, in senso migliorativo o peggiorativo, è determinante l’aggiornamento rispetto alla decisione anche con riferimento all’emersione di circostanze in precedenza non vagliate o rilevabili successivamente».

[17] Con riferimento alla natura della nutrizione e idratazione artificiale (NIA) è in corso un dibattito nel quale si fronteggiano due posizione contrapposte: una parte ritiene che sia un trattamento medico e che quindi non possa essere attuato contro la volontà della persona; dall’altra parte, lo si ritiene una semplice misura ordinaria di assistenza che non può essere né rifiutata in anticipo né negata alla persona. Prevale tuttavia la tesi che essendoci la necessità di costante sorveglianza della sonda e che tipo di dieta che va adattata alle esigenze metaboliche dell’organismo, questo trattamento «va assimilato alla terapia medica (cioè va messo sullo stesso piano della somministrazione di antibiotici o di trasfusioni», così BONITO – PRIMAVERA – BORGHI – MORI – DEFANTI, La sospensione delle misure di sostegno vitale, cit., p. 7. Analoghe conclusioni sembrerebbe aver raggiunto il “Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza” (istituito con Decreto del Ministro della sanità, professore Umberto Veronesi, del 20 ottobre 2000) nel documento elaborato, dove così testualmente si legge:«sulla natura dell'alimentazione e idratazione attraverso sonda nasogastrica in individui in SVP sono da segnalare le opinioni dell'American Academy of Neurology e della British Medical Association. Entrambe giungono alla conclusione che l'alimentazione e l'idratazione in tali condizioni debbano essere considerati trattamenti medici (…). Il gruppo “Bioetica e neurologia” della Società italiana di neurologia, invece considera l'idratazione e la nutrizione una forma di sostentamento eticamente doveroso in generale, ma non nei confronti degli individui in SVP, in quanto essi sarebbero da considerare già morti (anche se non rispondenti ai requisiti di legge per l'accertamento di morte. Si tratta di una presa di posizione che va collocata nei suoi esatti confini. I neurologi italiani affermano che l'alimentazione e l'idratazione in generale sono sempre doverose, in quanto atti di cura della persona tesi al sostentamento, ma non dicono che l'alimentazione e l'idratazione artificiali dell'individuo in SVP siano atto di cura teso al sostentamento. Ad avviso di questo gruppo di lavoro, il punto essenziale è che nell'idratazione e nutrizione artificiale in individui in SVP viene somministrato un nutrimento come composto chimico (una soluzione di sostanze necessarie alla sopravvivenza), che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda naso-gastrica o altra modalità e che solo medici possono controllare nel suo andamento, anche ove l'esecuzione sia rimessa a personale infermieristico o ad altri. Mentre il beneficiato non solo non può apprezzare il preparato o i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di essere alimentato. Quando l'alimentazione e l'idratazione si svolgono in tali condizioni esse perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso ampio». Il documento nella sua interezza si può leggere in www.personaedanno.it

[18] Cfr. R. ESPOSITO, Bios, cit., p. 152.

[19] Cfr. E. LEVINAS, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, 1996, p. 31: il termine «essere inchiodati» (être rivé), venne coniato da Levinas per descrivere il rapporto esistente con il sé e con il mondo nel caso specifico della sofferenza: il fondamento della sofferenza è costituito dall’impossibilità di interromperla e dal sentimento acuto di “essere inchiodati”.

[20] Cfr. R. ESPOSITO, Bios, cit., p. 114; nonché G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, p. 370, secondo quest’ultimo le due mutazioni da prendere in esame oggi sono: «1. la mutazione che l’uomo ha subito in quanto  produttore, parte e vittima di questo suo mondo tecnico; 2. la mutazione che il mondo ha subito attraverso la propria tecnicizzazione».

[21] Così, S. RODOTA’, Il diritto e la dignità, cit.

[22] Secondo la Corte d’Appello di Milano, una siffatta  interpretazione peraltro attua pienamente  il «principio di uguaglianza nei diritti di cui all’art. 3 della Costituzione, che evidentemente non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori» (così, App. Milano (decreto), 25.06.2008, n. 88, cit.).

[23] Cfr. Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, cit.

[24] App. Milano (decreto), 25.06.2008, n. 88, cit.

[25] Cass. civ., sez. III, 15.09.2008, n. 23676, in www.personaedanno.it, inoltre, ad avviso della Corte se poi il soggetto si trova in stato di incoscienza quando gli viene somministrato il trattamento egli deve «recare con sé una articolata, puntuale espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentati confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari» (in una fattispecie nella quale era stato applicato in via d’urgenza un trattamento emo-trasfusionale ad soggetto in pericolo di vita, nonostante egli in qualità di testimone di Geova fosse contrario per motivi religiosi a tale pratica terapeutica). Secondo il Tribunale di Modena, inoltre, è già compitamente ed esaurientemente tutelato dagli artt. 2, 13 e 32 Cost., il diritto di «autodeterminazione delle persona al rispetto del percorso biologico naturale» nel caso di persona capace che «rifiuti o chieda di interrompere un trattamento salvifico e il caso dell’incapace che, senza aver lasciato lacuna disposizione scritta si trovi in una situazione vegetativa clinicamente valutata irreversibile e rispetto al quale il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori convincenti, che la complessiva personalità dell’individuo cosciente era nel senso di ritener lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di una vita vegetativa. Resta un’ultima ipotesi: quella dell’incapace che, trovandosi nella situazione appena descritta abbia alsciato specifiche disposizioni di volontà volte ad escludere trattamenti salvifici artificiali che lo mantengano in vita in stato vegetativo. Nessun dubbio che anche in tal caso debba valere, a maggior ragione, il dovere dell’ordinamento al rispetto di una espressione auto determinativa che null’altro chiede se non che il processo biologico, lungi dal venir forzato, si dipani secondo il suo iter naturale. E sol che si richiami il comma 2 del vigente art. 408 c.c., appare di difficile confutazione la conclusione dell’assoluta superfluità di un intervento del legislatore volto a introdurre e disciplinare il c.d. testamento biologico. Già esistono, infatti, il diritto sostanziale (artt. 2, 13 e 32 Cost.), lo strumento a mezzo del quale dare espressione alle proprie volontà (l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, l’art. 408 comma 2, c,c,) e, infine, l’istituto processuale di cui avvalersi (l’amministratore di sostegno)», così, Trib. Modena (decreto), 13.05.2008, in Resp. civ. prev., 2008, p. 1825 (con nota di G. GENNARI, La via giurisprudenziale al testamento biologico?, p. 1828 e ss.).

[26]Così, Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, cit.; nonché Corte Cost., 23.06.1994, n. 258 in Foro it., 1995, I, c.1451, che, in un fattispecie relativa la vaccinazione obbligatoria di un minore, ha ribadito come l’art. 32 Cost. postula il «necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto di ciascun individuo (sentenza 1994 n. 218, Foro it., 1995, I, 46) e con la salute della collettività (sentenza 1990 n. 307, id., 1990, I, 2694); nonché, nel caso in particolare di vaccinazioni obbligatorie “con l’interesse del bambino”, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai compiti inerenti alla cura del minore».

[27] Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, cit.

[28] Cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana, Einaudi, 2002, p. 61: «nelle vicissitudini della storia di vita, noi possiamo ribadire il nostro “essere noi stessi” solo quando possiamo stabilire una differenza tra ciò che noi siamo e ciò che a noi accade»; H. JONAS Il diritto di morire, cit., pp. 14-16. A tale proposito Jonas distingue chiaramente questo caso dal suicidio con il quale spesso è confuso: «sussiste qui una notevole differenza rispetto al “rivolgere la mano contro se stessi”, vale a dire ci si da violentemente la morte: gli altri inclusi i poteri pubblici, di fatto ogni astante, hanno il diritto (che in definitiva viene persino considerato un dovere) di impedire, mediante tempestivo intervento, che un esclude neppure il ricorso alla forza un tentativo avvivo di suicidio. Si tratta, come è generalmente ammesso, di un’ingerenza nella più intima sfera di libertà del soggetto, ma di un’ingerenza soltanto momentanea e anzi, a più lunga scadenza di un atto in nome proprio di quella libertà. Infatti essa ristabilisce soltanto lo status quo di un soggetto libero d’agire, offendo l’opportunità di un’ulteriore riflessione, mediante la quale questi può ritornare sulla sua decisione, che magari era dettata da un attimo di disperazione, oppure perseverare in essa».

[29] App. Milano (decreto), 25.06.2008, n. 88, cit. Nella ricostruzione del volere dell’incapace, anzitutto - e in via preliminare – si è ritenuto indispensabile sgombrare il campo dal rischio di possibili conflitti di interesse tra rappresentante e rappresentata, ragion per cui: a) è stato nominato un curatore speciale, con funzioni di garanzia e controllo, al fine di verificare - in via di principio - la genuinità e la trasparenza delle intenzioni dei fini che possono aver indotto il tutore a tale scelta; b) la Corte d’appello ha proceduto a verificare l’esistenza in capo al tutore di interessi personali sotto profili di natura economica, materialistica o logistica, escludendoli però completamente, considerate le modalità di cura fruite dalla paziente, «ricoverata presso una struttura ospedaliera esterna che non richiede l’assistenza domiciliare continua dei familiari e on costo integralmente a carico del SSN) e tenuto conto che trattandosi di persona incontestatamente nullatenente non viene in gioco neppure alcun interesse ereditario dei genitori». Eliminati anche queste possibili fonti di dubbio, la Corte Milanese ha quindi accertato, in via necessariamente presuntiva, la volontà della paziente (ossia se in «ragione delle sue concezioni di vita e in specie di dignità della vita», la stessa avrebbe «accettato o meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive») escutendo le prove testimoniali. Prove che, ad avviso della Corte, avevano offerto un «contributo conoscitivo decisivo e credibile», dalle quali era emersa «quella che è stata – con espressione sintetica – la Weltanshauung» della paziente, in modo non «meramente astratto o metafisico, ma concreto. In particolare il suo grande amore per la vita esprimeva una condizione limitativa di senso: vita (amata e da amare) era solo quella che poteva essere vissuta pienamente»; non quella che la consegnava al lungo trascorrere di un’esistenza solo «organica ed apparente, senza più contatti con il mondo esterno». Per tali ragioni la Corte d’Appello di Milano, all’esito delle rigorose prove svolte, ha ritenuto ampiamente provata la correttezza dell’interpretazione prospettata dal tutore in ordine alla «scelta (orientata all’interruzione del trattamento del sostegno vitale) che presumibilmente avrebbe fatto la giovane paziente nella tragica condizione in cui versa se avesse potuto o potesse esprimersi direttamente e liberamente». Così ricostruita la volontà della paziente, conseguentemente e coerentemente, la Corte d’Appello ha autorizzato la sospensione del trattamento di alimentazione e di idratazione artificiale realizzato mediante sondino naso-grastrico[29], disponendo che ciò avvenga in luogo di ricovero confacente e con modalità tali da «garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona».

[30] Anche se con le parole di Jonas si ricorda che  è «il concetto di vita , non quello di morte che in definitiva governa la questione, del “diritto di morire”. Col che siamo tornati al punto di partenza, vale a dire al riconoscimento del diritto di vivere come fonte di tutti i diritti. Correttamente e integralmente inteso, esso include anche il diritto di morire» (così, H. JONAS, Il diritto di morire, cit., p. 50).

[31] Cfr. App. Milano (decreto), 25.06.2008, n. 88, cit.

Recentemente la Procura della Repubblica di Sassari con provvedimento del 23.01.2008, ha stabilito che «non integra il reato di omicidio del consenziente il comportamento del medico che lascia morire di inedia un paziente affetto da una grave patologia invalidante, senza imporgli quella nutrizione ed idratazione da questi consapevolmente rifiutate; tale rifiuto è giuridicamente efficace, perché rientrante nell’art. 32, comma 2, cost., per il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non nei casi previsti dalla legge. Pertanto, quando viene opposto un rifiuto ad un trattamento sanitario, la relativa omissione del medico non è tipica e non è penalmente rilevante: viene infatti meno l’obbligo giuridico ex art. 40, comma 2, c.p., anzi scatta per il medico il precipuo dovere di rispettare la volontà del paziente», in D&G, 2008, 15.

Secondo Jonas, «s’accresce la speranza che il medico torni ad essere al servizio dell’uomo e non un tirannico e a sua volta tirannizzato padrone della vita del paziente», così H. JONAS, Il diritto di morire, cit., 50.

[32] Secondo la Cassazione, il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere «scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale», così, Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, cit.

 

 

 

* Avvocato in Milano.

Sabrina.Peron@gagisco.it

http://www.gagisco.it/profSP.htm

 


 

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